L A   F E L I C I T À   È

U N   V A N T A G G I O


Un nuovo modo di vedere il nesso causale fra felicità e successo.

di Canzio Panzavolta

La felicità è un vantaggio competitivo


Tempo fa ho partecipato ad un convegno che riguardava, più o meno, il fatto che “avere collaboratori più felici aumenta la produttività e i profitti della propria azienda”.

In effetti i più recenti studi che indagano sul rapporto felicità / successo hanno portato ad una rivoluzione copernicana sull’argomento. Fino ad ora la maggior parte delle persone è abituata a pensare che il “successo” (concetto piuttosto soggettivo, che possiamo riiassumere qui con “il raggiungimento dei propri obiettivi”), sia la causa della felicità.

In effetti sembra ragionevole pensare che, se raggiungo i miei obiettivi, meglio ancora se insieme con il mio gruppo (famiglia, azienda, squadra), sarò felice. Ebbene, alcuni studi, fra cui quello di Swan Achor, riportato nel suo libro “Il Vantaggio della Felicità”, dimostrano, attraverso ricerche condotte dall’Università di Harvard, che la sequenza è invertita.

In altre parole essere felici è un “vantaggio”, una sorta di prerequisito per poter raggiungere tutto ciò che desideriamo; statisticamente le persone che sanno affrontare la vita, il lavoro, le situazioni con “felicità”, hanno maggiori probabilità di raggiungere i loro obiettivi.

Un vero e proprio cambio di paradigma.

Immagino che quindi l’idea di “come aumentare produttività e profitti, aumentando la felicità dei dipendenti”, venga proprio da queste considerazioni e queste nuove prospettive.

Non so perché, ma ho come l’impressione che qualche imprenditore sia già tentato di inserire nel mansionario l’obbligo di essere felici, con tanto di sanzioni per chi non si adegua.

È chiaro che non è così semplice. Non è questa la sede di approfondimento, ma il prerequisito è certamente quello di essere contenti di avere quei collaboratori con sè e manifestarlo, per poi impegnarsi a creare condizioni di lavoro ottimali e soddisfacenti. Se riteniamo che avere dipendenti sia una necessità di cui faremmo volentieri a meno, è molto difficile che le persone che lavorano con noi si possano trovare bene.

Far star bene le persone, perché siano disposte a dare di più è una ovvietà, ma servirebbe qualcosa di meglio: essere felici di lavorare in gruppo, creare le condizioni perché chi lavora con noi trovi un clima sereno, confortevole, ma allo stesso tempo sfidante e divertente.

Ovviamente le persone si impegneranno solo se, nell’aiutare l’azienda a raggiungere i risultati, troveranno anche il modo di soddisfare i propri bisogni e di raggiungere i propri obiettivi. 

Oggi sembra che l’idea dominante sia quella che occorre accontentarsi, perché il lavoro è difficile da trovare, per cui abbassare la testa e lavorare, perché la situazione “là fuori” è triste. Ragionando così la situazione si fa triste anche “qua dentro” e, se le teorie di Achor sono giuste, questo non aiuta a raggiungere alcun risultato.

Occorre pensare che i nostri collaboratori sono in grado di aiutarci (in fondo è per questo che li paghiamo) e sarebbero pure felici di farlo, se solo chiedessimo. Ma per chiedere aiuto a una persona bisogna credere che sia uguale a noi, alla pari con noi; se lo trattiamo dall’alto in basso non otterremo certo granchè. Un’altra idea sbagliata è di mettere i collaboratori sotto pressione, così daranno il massimo; non funziona. Mai. Perché le manipolazioni non durano a lungo e la pressione negativa non aiuta nessuno a star bene, ad essere felice. A volte sembra che funzioni, perché tutti ubbidiscono e si sottomettono al capo, ma qui parliamo dell’obbiettivo di produrre di più e prosperare, non di ottenere ubbidienza.

Questa rivoluzione copernicana studiata dal professore di Harward è certamente una buona notizia: abbiamo non solo il permesso di essere felici senza motivo e prima di aver raggiunto alcunché, ma addirittura questa felicità ci aiuterà a fare e ad ottenere sempre il meglio. Il problema è che, se da un lato viene accolta con favore, pochi ci credono fino in fondo, al di là delle evidenze scientifiche (riportate anche nel libro, che consiglio vivamente di leggere).

Credo che, al di là dei convegni, degli articoli e degli studi, la realtà imprenditoriale stia comunicando di fatto un altro modello. Le regole e le descrizioni del lavoro contenute in annunci, mansionari e procedure troppo spesso mettono tristezza. I giovani vengono assunti con contratti che spesso sono tristi in sé e, con la scusa della crisi, l’ottimismo imprenditoriale si nasconde. Eppure è sempre stato l’entusiasmo il motore di ogni innovazione e di ogni sviluppo, basta guardare i fatti.